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Dalla parte di Roman

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Questo pezzo è uscito su L’Ultimo Uomo. (Fonte immagine)

Vorrei parlare di Valderrama, Redondo e Riquelme, i tre grandi lenti della storia del calcio recente, e di come giocatori di questo tipo, sia da un punto di vista tattico che tecnico, stiano sparendo dal panorama calcistico di alto livello. Tempo fa mentre mi scaldavo per il calcetto settimanale con la palla “a rimbalzo controllato”, che chi ci gioca per la prima volta chiama “la palla medica”, ma che non schizza via e rotola più lentamente di quella normale permettendo più di tre passaggi di seguito, ho sviluppato una teoria secondo cui il calcio moderno sta diventando troppo atletico e tra poco i giocatori saranno così veloci che sarà semplicemente impossibile controllare la palla. Se nessuno farà niente nel giro di pochi anni ci ritroveremo con ventidue Cristiano Ronaldo in campo e il calcio si sarà evoluto in uno sport ipercinetico fatto di scontri ad altissima velocità, la palla che schizza da una gamba all’altra al fallo laterale.

Una specie di polo giocato da centauri, le partite finiranno quasi tutte 0-0 e i pochissimi gol saranno acrobazie pazzesche su lanci supersonici e tiri da distanze impossibili. Il regolamento andrà in direzione del football americano, verrà introdotto il sistema di down, le yard e le protezioni gommose sulle cosce, le spalline, i caschetti, le azioni non dureranno più di sei secondi. Allora ho pensato che se non fossimo schiavi delle multinazionali interessate a produrre palloni sempre più leggeri così che i difensori sovrappeso riescano a segnare da centrocampo a calcetto, si potrebbe introdurre un pallone tipo quello a rimbalzo controllato; ma anche in questo modo otterremmo solo di trasformare le partite di calcio in enormi partite di calcetto, ovvero enormi partite di scacchi con esseri umani, e a parte la bellezza di campi in parquet lunghi cento metri non avremmo risolto nulla.

Nel frattempo Gareth Bale ha esordito segnando con la maglia del Real Madrid. L’azione del gol nasce dall’addensamento sul lato destro del campo creato da Benzema, Modrić e Carvajal che controlla una gran palla in corsa e crossa alla perfezione. Bale arriva dal lato scoperto, corre più veloce del diretto avversario e la struttura fisica elastica gli permette di colpire il pallone cadendo, in scivolata, tenendo il marcatore a distanza con la schiena. Si scontra con il portiere ma non si fa assolutamente niente, si rialza subito trovandosi il portiere tra le gambe muscolosissime. In Inghilterra Bale non è stato soprannominato “magico” (come González),  o una cosa tipo “il capo” (come Micoud in Germania), lo hanno chiamato “Superman”. Del suo debutto nell’alta società del calcio, in fondo opaco nonostante il gol, la stampa spagnola ha sottolineato un’azione in particolare, uno scatto definito «alla Usain Bolt». In effetti, gli è stata presa la velocità, Bale correva a 25 miglia orarie, solo 2 in meno del centometrista giamaicano. A sua volta Usain Bolt, che pensa sul serio di poter giocare a calcio da professionista una volta finito con l’atletica, si rispecchia proprio nel gallese. Bale ha molta qualità e l’eventualità che Bolt diventi un giocatore sembra remota a giudicare dal suo tocco di palla; ma cosa significa che il calciatore più costoso di sempre è un terzino, avanzato solo in età adulta a centrocampo, diventato trequartista con la recente diffusione del 4-2-3-1?

Il ritorno in voga del 4-2-3-1 con la presenza di più trequartisti contemporaneamente in campo, più giocatori tra le linee, sta contribuendo alla scomparsa di quel tipo di giocatore a cui si dà libertà di svariare in tutta la metà campo avversaria, allargandosi sia a destra che a sinistra, venendosi a prendere palla a volte anche molto indietro. Se si guardano le rose delle squadre principali i trequartisti contemporanei sono o degli esterni in grado di tagliare verso il centro (Hazard, Neymar, Silva, ovviamente Cristiano) o numeri dieci con uno stile estremamente diretto e a loro agio sopratutto nell’ultimo quarto di campo. Gli vengono dati compiti tattici molto specifici e ci si aspetta che il margine di errore sia ridotto il più possibile, la capacità di variare il proprio gioco diventa secondaria all’efficenza. Oscar è forse il migliore tra i giocatori specializzati in una zona di campo grande più o meno venti metri quadrati a passare dalla situazione “spalle alla porta” a quella “fronte alla porta”, ma anche Özil, più riflessivo, capace di collegare maggiormente centrocampo e attacco e aspettare con la palla tra i piedi il movimento dei compagni (la così detta “pausa”, specialità dei giocatori sudamericani, che per Özil è una questione di pochissimi secondi), dà il meglio di sé vicino all’area avversaria, minacciando le difese col proprio dribbling, sbilanciando il piano inclinato del gioco verso le zone pericolose dell’area avversaria.

Nello speciale estivo di So Foot dedicato ai numeri 10, Özil ha raccontato di aver cominciato come attaccante e di essersi allenato da piccolo in quella che lui chiama la “gabbia”: «Dieci metri su cinque, e giocavamo sei contro sei». Dato che non c’erano fuori né pause l’intensità era al massimo. Più avanti quando gli chiedono se si sente un giocatore “anarchico”, Özil risponde: «Oggi il numero 10, come l’attaccante, non può fare a meno dei compagni e ignorare la fase difensiva. In passato il playmaker era davvero libero, faceva quello che voleva». Oscar e Özil sono tra i giocatori più creativi in circolazione ma è il concetto stesso di creatività a essere cambiato nel contesto del calcio moderno, e basta confrontarli a una qualsiasi partita di Valderrama per vedere che non hanno la stessa libertà in campo e che la loro influenza sugli altri ventuno esseri umani in campo e sul ritmo di gioco è minore.

Quando parlo di giocatori lenti non intendo fisiologicamente lenti, ma capaci di rallentare il gioco fino quasi a sospenderlo, addomesticando la frenesia alla propria volontà, il caos al tempo del proprio pensiero. Oggi si cerca di raggiungere la maggiore profondità possibile nel minor tempo, superando subito la metà campo, e magari sto esagerando come con la teoria esposta all’inizio ma ho l’impressione che l’efficenza delle grandi squadre contemporanee stia trasformano “the beautiful game” in un box-to-box simile al basket. Le ultime generazioni di giocatori sono in grado di prendere decisioni complesse in frazioni di secondo, ma non danno mai l’impressione di pensare giocando; sembra che le partite vadano affrontate sempre alla stessa intensità per produrre il maggior numero di occasioni.  E a fare il ritmo, uno solo costante e sostenuto con variazioni minime per tutti i novanta minuti, non sono più i playmaker ma gli incursori, non chi ha la palla tra i piedi, ma chi corre nello spazio. I playmaker sono semplicemente quelli che eseguono il primo passaggio, e sempre più spesso si tratta di difensori: nella Juve oltre a Pirlo c’è Bonucci, nel Brasile addirittura sembra sia Marcelo.

Guardando le partite del “Pibe” Valderrama invece sembra non abbia ruolo e che il suo compito principale sia proprio quello di decidere l’andatura dei compagni (e degli avversari). Si muove senza palla ma non in profondità, viene incontro ai compagni abbassandosi sulla linea dei centrocampisti o addirittura dei difensori. Tra le linee si muove quanto basta per farsi vedere, triangola in pochi metri con l’uomo addosso giocando di prima o tiene palla trotterellando, senza cercare subito l’ultimo passaggio, persino al limite dell’area non ha mai fretta. Ovviamente Valderrama non difendeva se non con il pallone tra i piedi, dribblando all’indietro, correndo verso la propria metà campo (un’altro maestro del dribbling difensivo era il “Piksi” Stojcković, che prima dei molti infortuni però era anche in grado di accelerazioni in profondità notevoli).

Özil dice che non può fare a meno dei compagni e anche Valderrama, e in generale il toque-toque colombiano del “Pacho” Maturana il cui Everest stilistico può essere considerato lo 0-5 rifilato all’Argentina nello stadio del River Plate, con Maradona in tribuna costretto ad alzarsi in piedi e applaudire, non poteva fare a meno degli scatti brucianti di Valencia, Rincón e Asprilla, ma è vero anche il contrario e senza un giocatore come Valderrama quello stesso gioco sarebbe stato prevedibile. Alcune individualità se lasciate libere si esaltano nel gioco di squadra, non sempre la libertà coincide con l’egoismo. Credo però che la citazione di Özil indichi un problema più ampio: oggi il trequartista, per quanto possa essere fantasioso, non può fare a meno di compiere determinati movimenti e sottostare a un tempo di gioco che non dipende da lui.

Il Barcellona “quantistico” di Guardiola è un buon esempio di squadra composta da individui eccezionali all’interno di uno schema che li trascendeva e che anzi ne prevedeva l’intercambiabilità, purché chiunque si trovasse in una certa posizione si comportasse come ci si aspettava (e il ritmo apparentemente compassato con cui la palla si muove da una linea all’altra o in orizzontale nasconde la grande intensità del movimento generale). «Al massimo potrei giocare in terza divisione» ha detto Guardiola, ai suoi tempi un giocatore lento, e un sistema di questo tipo sembra pensato proprio per superare le definizioni di “lento” e “veloce” spostando l’attenzione dal piano individuale a quello collettivo.

«Tutte le squadre hanno bisogno di qualcuno capace di riflettere col pallone tra i piedi», ha detto Valderrama di se stesso, e l’allenatore argentino César Menotti lo ha definito «la prova vivente che la velocità è una questione di intelligenza». Parlando della Nazionale colombiana, un paio di anni fa, Valderrama si è lamentato proprio della mancanza di creatività. (E forse il giocatore al momento più vicino all’ideale di playmaker che sembra avere in mente Valderrama è proprio un colombiano, Juan Fernando Quintero del Porto, prima al Pescara, sempre che il calcio europeo non lo faccia diventare qualcosa di diverso.) «Ci sono sempre playmaker in giro» ha detto “el Pibe”, «ma sono pochi gli allenatori che li lasciano giocare».

Sul So Foot sopra citato, Zinédine Zidane dice una cosa che mi ha spezzato il cuore. Quando gli chiedono perché a Madrid ha scelto la maglia numero 5 ha risposto che Florentino Pérez non voleva numeri strani e che il 5 era l’unico rimasto tra l’1 e l’11. Dato che lo Zidane di Madrid era una sorta di playmaker lento e avanzato, ho sempre pensato, erroneamente, che avesse scelto quel numero in onore di Fernando Redondo, che lo aveva indossato fino a poco tempo prima (e che era in campo quel famoso settembre del 1993 contro la Colombia di Valderrama). Mi dicono che in ambito esoterico il 5 è un numero molto importante perché la metà del 10, che è “il Sole”, e a tal proposito Redondo ha detto: «Tutto quello che succede in campo passa per i piedi di chi gioca in quel ruolo. Se Gesù Cristo avesse giocato a calcio, avrebbe scelto la maglia numero 5».

Ma anche questo tipo di centrocampista centrale (il cui archetipo forse è Franz Beckenbauer), da solo a ridosso della metà campo, che ha bisogno di spazio e a cui piace portare palla e scegliere il ritmo variando la lunghezza dei passaggi, sta scomparendo dalla circolazione. Ci sono grandi passatori, Xabi Alonso, Pirlo, ma non sono loro a dare il ritmo ai compagni e raramente si vedono dalle parti dell’area di rigore avversaria. Con la palla tra i piedi spaziano meno di Redondo, non hanno la sua centralità che lo rendeva quasi onnipresente. Oltre all’eleganza da maestro di tango e al carisma, l’impressione che guidasse telepaticamente i movimenti dei compagni, riguardando le sue partite è interessante notare come Redondo si muoveva subito dopo aver scaricato la palla (lento, ma non immobile) andando a creare immediatamente una nuova linea di passaggio per i compagni, avanzando a forza di triangoli.

Ufficialmente il giovane Redondo, bello, di buona famiglia, ha rifiutato la convocazione al Mondiale del ’90 perché aveva degli esami di legge, si dice però che in realtà non fosse d’accordo con l’idea di gioco difensivista del mister Biliardo. Simon Kuper in un articolo di dieci anni fa in cui definiva Redondo “The one-touch perfectionist” divideva gli allenatori argentini in “biliardisti” per cui il calcio era aggressività e ricerca ossessiva del gol, uomini generalmente di destra, e quelli come Menotti, i “menottisti”, per cui il calcio è comparabile all’arte, di sinistra. Della seconda categoria faceva parte Jorge Valdano, che ha allenato Redondo al Tenerife prima di portarlo con se al Real Madrid, e ha partecipato al Mondiale del ’94 agli ordini di Basile, nell’ultima Argentina di Maradona, che si dice si fosse arrabbiato con lui anni addietro perché si era fatto fotografare con dei libri in mano mettendo in cattiva luce i calciatori come lui, facendoli sembrare degli stupidi. Grazie a Redondo, Maradona realizza uno dei gol più belli di quel Mondiale al termine di un’azione di sei passaggi tutti di prima (Balbo-Redondo-Maradona-Redondo-Caniggia-Redondo-Maradona).

Nel 1998, poco dopo aver vinto la sua prima Champions League, Redondo rinuncia al Mondiale e alla Nazionale di Passarella rifiutando di tagliarsi i capelli (Passarella aveva chiesto anche una rinoscopia di gruppo per sgamare i cocainomani). Secondo Kuper, Redondo rifiutava «di considerarsi un soldato all’interno di un esercito» come avrebbe voluto Passarella (“biliardista”). Tornerà in Nazionale un anno dopo , seppur per poco, con un altro amante del gioco offensivo come Bielsa, prima di scegliere di concentrarsi sulle partite di club. Soprannominato “El Principe”, lettore di Borges, García Márquez e di riviste di moda italiane, è stato definito da José Pekerman (attuale allenatore della Nazionale colombiana): «Il tipo di giocatore che i tifosi argentini si aspettano di vedere in campo. Il simbolo del calcio argentino». Persino il rigido Capello ha detto che Redondo era «tatticamente perfetto».

Il momento simbolo della sua carriera (due campionati, due Champions League, una Supercoppa europea, una spagnola e un’Intercontinentale con il Real Madrid; oltre a una Coppa America con la Nazionale e alcune cose vinte col Milan senza quasi giocare) è la partita di Manchester dell’aprile del 2000, vinta 3-2, la notte in cui Redondo prima di servire Raúl a porta vuota ha dribblato, aggirato con uno dei più bei tacchi della storia, persino con una certa agilità, il povero Henning Berg, incatenandolo contro la sua volontà (e nonostante anche lui abbia una bacheca più che dignitosa) a quel ricordo. «Cos’ha negli scarpini, un magnete?», ha detto Alex Ferguson dato che quella sera tutti i palloni vaganti finivano tra i piedi di Redondo. Persino Rinus “calcio totale” Michels, quando gli hanno chiesto se avrebbe tollerato da uno dei suoi giocatori un gesto del genere, ha risposto: «Quel ragazzo non avrebbe sentito una parola al riguardo da me».

Certo Redondo non piaceva a tutti, e quando la squadra intorno a lui non girava, sembrava solo lento, persino svogliato. Johan Cruijff nel 2000, parlando del Real Madrid, ha detto: «Non credo ci sia un’altra squadra al mondo che perde così tanti palloni a centrocampo. È impossibile tenere il conto di quelli che perde Redondo». Anche se del Bosque, suo ultimo allenatore a Madrid, ha sostenuto ai tempi del ritiro di Redondo che con il suo gioco avesse «imposto lo stile che ha guidato il Real Madrid negli ultimi anni», il centrocampo con cui la squadra spagnola ha giocato la finale di Coppa Intercontinentale contro il Boca Juniors, la prima grande partita dopo il suo passaggio al Milan, era composto da Helguera, McManaman e Makélélé, nessuno dei quali sembrerebbe avere molto in comune con Redondo. Il Madrid di quella sera era una squadra senza un vero playmaker, che ricorreva spesso ai lanci lunghi per raggiungere sulle fasce Roberto Carlos o Figo (per cui si diceva fosse stato ceduto Redondo), e il centrocampo delle “merengues” in più  di un momento era dominato da un uomo solo,  il solo regista in campo, il numero 10 del Boca: Juan Román Riquelme.

Nella partita di Tokyo, il Boca Juniors ha la fortuna di andare subito in vantaggio grazie a Martín Palermo, che raddoppia già al quinto minuto del primo tempo sfruttando un lancio di quaranta metri di Riquelme, col Madrid sbilanciato già in avanti alla ricerca del pareggio. Roberto Carlos accorcia le distanze con un meraviglioso controllo di coscia seguito da uno dei suoi tiri al volo (con un’azione simile aveva colpito la traversa poco prima) e il Real Madrid prova per tutto il resto della partita a recuperare il gol di svantaggio, il Boca soffre e il suo miglior difensore (senza eseguire un solo tackle, difendendo con la palla tra i piedi) è Riquelme. Già da prima il ritmo del Boca lo faceva lui, con frequenti cambi di fascia che seguiva muovendosi senza palla, andandosela a riprendere, facendo da riferimento costante.

Quando la pressione del Madrid aumenta lui si trova a gestire ogni pallone in mezzo a due o tre avversari, protegge palla, s’infila fin dove si può infilare conquistando angoli e punizioni, oppure cammina in mezzo al campo addormentando la partita, ipnotizzando Makélélé, toccando la palla quattro, cinque volte, prima di passarla al compagno a un metro. Se Delgado o Palermo si gettano nello spazio, in un buco che si è creato proprio perché Riquelme ha attirato su di sé due giocatori, o in contropiede, non perde occasione per verticalizzare e provare a chiudere la partita. L’incredibile capacità di proteggere palla aiutandosi con le braccia, sbilanciandosi di continuo come se stesse su una barca in mezzo alle onde, senza mai perdere il contatto, quel tocco delicato con la suola che forse non ha mai avuto nessuno a parte lui e che gli permette di dribblare in spazi strettissimi gente molto più veloce.

Se non potete guardare la partita per intero (dovrebbero proiettarla in classe durante l’ora di educazione fisica) guardate almeno l’ultimo quarto d’ora, o skippate al quarantatreesimo del secondo tempo, quando Riquelme recupera palla al limite dell’area, sulla fascia sinistra, salta McManaman, poi salta Geremi che lo insegue, superata la riga di centrocampo si ferma e protegge palla finché non gli fanno fallo.

«Un mio amico lo chiama “il casello”», ha detto una volta Valdano riguardo a Riquelme. «Ogni volta che la palla arriva tra i suoi piedi si deve fermare per forza. Il ritmo e la direzione della palla dipende in gran parte dal livello di ispirazione di Riquelme. E Riquelme non è sempre ispirato.» Pekerman invece, che con Riquelme ha vinto il Mondiale under-20 nel 1997, ha detto: «Qualcuno dice che è lento, ma non è lento con la palla. È la palla che deve correre, non il giocatore». I limiti del gioco di Riquelme gli hanno impedito una vera e propria consacrazione in Europa (in panchina o fuori ruolo al Barcellona, Pellegrini gli ha costruito una squadra intorno al Villareal ottenendo un terzo posto in campionato e la semifinale di Champions del 2006) e forse una reputazione che non corrisponde davvero alla sua grandezza.

Anche in patria, dopo la finale di Coppa America del 2007 persa 3-0 con il Brasile, lo hanno criticato. Al punto che sua madre si è sentita male e Riquelme ha scelto di allontanarsi momentaneamente dalla Nazionale: «C’è molta cattiveria ed è mio dovere pensare a lei. Amo la mia vecchia e cara madre. Chi sono io per farla soffrire?» Di famiglia umile ma non poverissima, primo di undici fratelli, Riquelme è cresciuto con un padre mai soddisfatto delle sue prestazioni in campo: «Anche se la stampa diceva che avevo giocato bene lui mi ricordava tutti i passaggi che avevo sbagliato». Dopo aver dato l’addio nel 2012 e aver passato mesi lontano dal campo, ha deciso di ricominciare a giocare lo scorso febbraio, a trentacinque anni. Lo chiamano “l’Ultimo Diez” ma qualcuno gli dà del “vecchietto” già da prima che si fermasse, i suoi critici peggiori dicono addirittura che il suo calcio è “bugiardo”, qualsiasi cosa voglia dire. Il suo più grande sostenitore invece, il giornalista Horacio Pagani, lo ha definito “Intratable” (che io tradurrei con l’inglese unplayable, per cui noi non abbiamo un equivalente) e ancora nel marzo del 2011 sosteneva che il miglior giocatore del mondo non fosse Messi bensì Riquelme.

Sono in molti a pensare che Riquelme meriti un posto tra le leggende e Andrés Iniesta ha detto una cosa non troppo diversa da quella di Pagani: «Lionel Messi è il miglior giocatore del mondo, ma Riquelme è fuori concorso». Secondo Luis Aragonés non si può dire che Riquelme sia lo Zidane argentino, perché secondo lui: «Riquelme è molto meglio di Zidane»; Zidane che ha giocato l’ultima partita al Bernabeu proprio contro il Villareal di Riquelme: «È un onore ritirarmi con la sua maglietta tra le mani». Ronaldo (il primo) ha sintetizzato: «Se non ti piace Riquelme, non ti piace il calcio». Al momento Román è infortunato, dovrebbe tornare in campo domenica contro il Quilmes e tra dieci giorni ci sarà il “superclásico” con il River Plate. I tifosi del Boca ancora ricordano il famoso “caño a Yepes”, il tunnel di suola (riprodotto da Cristiano Ronaldo in Nazionale proprio qualche settimana fa) con cui ha umiliato Mario Yepes sulla linea del fallo laterale in un derby di più di dieci anni fa. Riquelme ci ha riflettuto e a tal proposito ha dichiarato: «In una partita del genere, un classico, eravamo sopra 3-0 e me ne sono uscito con quella cosa. Un altro al posto suo mi avrebbe fatto male, lui invece mi ha seguito lungo la fascia e mi ha chiuso in fallo laterale. È stato molto più uomo Yepes a reagire così, che io a fargli un tunnel in quella situazione».


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